dal capitolo XII

Il debito morale

    Dopo l’annessione, quindi, cominciò un trasferimento di ricchezza verso il nord, che fu massiccio e riguardò tutti i settori. Il governo piemontese, ora a capo dell’intero Paese, dopo aver incamerato il danaro che era nelle casse del Regno delle Due Sicilie, utilizzato per arginare la propria drammatica situazione finanziaria, recuperò altre risorse dalla vendita dei terreni demaniali e dei beni sottratti alla Chiesa (sia i primi, sia i secondi erano quasi esclusivamente nel sud e fruttarono rispettivamente 300 e 620 milioni), ma anche dalla vendita di beni appartenenti allo stato napoletano, che mai nella sua lunga storia aveva avuto bisogno di cedere un solo immobile pubblico o un’azienda per realizzare un profitto. Perfino i depositi bancari personali di Francesco II e degli altri componenti della famiglia reale furono requisiti, violando insieme il diritto alla proprietà privata e i più elementari principi della giustizia.

 

    Ulteriori vantaggi, poi, furono assicurati all’economia subalpina nel 1866, quando la legge sul corso forzoso garantì alla Banca Nazionale nel Regno d’Italia, il maggiore istituto torinese, un forte incremento della propria liquidità, permettendo il trasferimento a suo favore di argento proveniente dal Banco di Napoli. Quanto detto sinora sarebbe già sufficiente per comprendere i motivi del divario nella crescita delle due parti del Paese dopo l’unificazione. Si trattava, però, solo dell’inizio. Il Meridione, infatti, dopo aver consentito con le proprie risorse lo sviluppo, e in molti casi addirittura la nascita, delle imprese settentrionali, divenne anche, come abbiamo visto nel capitolo V, il loro grande mercato. Ogni cosa di cui lo stato aveva bisogno, persino la più insignificante, si faceva venire da aziende piemontesi, o comunque del nord, alle quali erano affidate tutte le forniture nella pubblica amministrazione. Anche le commesse furono per la maggior parte assegnate a industrie dell’Alta Italia, determinando in breve la chiusura di quelle meridionali, come accadde per l’acciaieria di Mongiana e per l’arsenale di Napoli, oppure un loro sostanziale ridimensionamento, come accadde per l’opificio di Pietrarsa e per il cantiere navale di Castellammare. Non diversamente andarono le cose nel campo dei lavori pubblici, nel finanziamento dei quali, come detto nel capitolo VII, il Settentrione era decisamente privilegiato, mentre al sud restava solo un’oppressione fiscale mai conosciuta prima e addirittura sproporzionata rispetto alla sua reale ricchezza.
    A questo punto era già moltissimo quello che i popoli delle Due Sicilie avevano dato, eppure il peggio doveva ancora arrivare. Grazie alla politica finanziaria del Banco di Napoli, infatti, il Mezzogiorno aveva convertito la propria economia e aveva abbandonato la produzione industriale, concentrandosi su quella agricola. In questo modo aveva assorbito l’impatto del nuovo mercato unico nella penisola e allo stesso tempo si era ritagliato un ruolo specifico al suo interno. Nel 1881, infatti, il suo pil era ancora grosso modo equivalente a quello del nord, mentre il numero dei suoi emigranti era ancora inferiore a quelli del Settentrione. Già prima dell’Unità i Piemontesi, i Liguri, i Lombardi e i Veneti più disagiati, come abbiamo visto nel capitolo III, avevano cominciato ad abbandonare la loro Terra e fino al 1860 si ritiene siano stati tra i 200.000 e i 300.000, anche se non esistono dati ufficiali per l’epoca. In seguito all’annessione cominciarono a lasciare il Paese anche cittadini del regno napoletano, ma per quasi quaranta anni i Settentrionali che espatriavano furono più numerosi e i Meridionali li superarono solo verso la fine dell’Ottocento, dopodiché il loro divenne un vero e proprio esodo biblico. Questo accadde a causa delle tariffe protezionistiche, come detto nel capitolo VII, deliberate nel 1887, in conseguenza delle quali non vi fu più la concorrenza industriale straniera sul territorio nazionale, ma allo stesso tempo l’agricoltura del sud perse la maggior parte dei mercati esteri. Ridotti a quel punto senza più risorse, a molti cittadini delle regioni danneggiate non rimase altra via che andare a cercare altrove un modo per sopravvivere. In circa venti anni a cominciare dall’ultimo decennio del secolo in più di 4.000.000 partirono (dei quali quasi 1.000.000 dalla Campania e addirittura più di 1.100.000 dalla Sicilia), in particolare verso l’America del Nord, fino a quando nel 1914 lo scoppio del conflitto mondiale non interruppe ogni flusso.

    Gli imprenditori terrieri del Mezzogiorno erano danneggiati dalle tariffe protezionistiche, non solo perché i loro prodotti, a causa delle ritorsioni doganali degli altri stati, non potevano essere venduti all’estero, ma anche perché erano costretti ad acquistare i macchinari ai prezzi imposti dalle fabbriche del nord, più alti di quelli che sarebbero stati praticati dalla concorrenza straniera. Numerosi economisti si battettero contro questa politica, che pregiudicava in maniera irrimediabile tutte le attività nel sud, e tra questi vi fu anche il pugliese Antonio De Viti de Marco, il quale per denunciare quanto fossero pesanti le conseguenze dei dazi, dichiarava lapidario: “La questione meridionale in sostanza è la questione della tariffa.” Eletto nel 1901 deputato tra i radicali, nel 1904 fondò addirittura una lega antiprotezionistica, alla quale aderirono tra gli altri il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola e il noto studioso Maffeo Pantaleoni. De Viti de Marco, che nella sua attività politica fu costantemente impegnato a contrastare l’egemonia del nord, così descrive la situazione nel saggio Il Mezzogiorno colonia di sfruttamento degli industriali settentrionali (in Per il Mezzogiorno e per la libertà commerciale, Sanson, 1905, e poi in Un trentennio di lotte politiche, Collezione meridionale, 1929): “Ora la tariffa del 1887 obbliga di fatto, indirettamente, il Mezzogiorno agricolo a comperare dal Nord gli articoli del suo consumo. È una forma attenuata dell’antico regime coloniale, per uscire dal quale basta pure, ma occorre, una forma attenuata di lotta per la propria indipendenza: la lotta politica. Noi abbiamo rinunziato volontariamente al nostro diritto, dando il nostro voto alla tariffa dell’87. Ma allora si diceva che la rinunzia sarebbe stata temporanea: appena il tempo necessario perché le industrie bambine fossero diventate grandi e vigorose. Sono passati 15 anni, durante i quali noi abbiamo venduto a vil prezzo le nostre derrate, concorrendo al buon mercato della vita del Nord, ed abbiamo comperato ad alto prezzo i manufatti protetti, concorrendo a rincarare la vita nel Mezzogiorno. Così abbiamo in 15 anni contribuito, noi, a reintegrare rapidamente il capitale investito nelle manifatture, mentre con quest’atto abbiamo posti noi stessi nella quasi impossibilità di più reintegrare il capitale investito nei nostri vigneti.”
    Non era ancora finita, però, perché adesso nel sud c’erano nuove risorse, alle quali si poteva attingere. Gli emigrati, infatti, inviavano in patria i loro risparmi, le famose rimesse, che in buona parte finivano nelle casse postali. Queste alimentavano la Cassa depositi e prestiti, che concedeva mutui ai comuni per la costruzione di opere pubbliche e per l’istituzione di scuole. E i comuni che potevano permettersi di indebitarsi all’epoca erano quasi esclusivamente quelli settentrionali. Altra parte delle rimesse veniva investita, invece, nei Buoni del Tesoro, offerti dallo stato con interessi allettanti, con i quali si finanziavano le industrie, tutte oramai comprese nel cosiddetto triangolo industriale, ovvero tra Torino, Genova e Milano. Le somme che arrivavano dall’estero erano ingenti e dai circa 200 milioni del 1900, si passò ai 300 di media tra il 1901 e il 1905 e ai quasi 500 di media per il quinquennio successivo, per arrivare addirittura ai circa 700 milioni del 1913. (Le cifre sono necessariamente approssimative, perché il danaro veniva contabilizzato solo quando passava attraverso i canali ufficiali, costituiti dai bonifici bancari e dai vaglia postali internazionali. Sfuggiva, invece, alle registrazioni, quando gli emigranti lo facevano arrivare direttamente ai propri familiari, ad esempio inserendolo nelle buste insieme alle lettere, oppure affidandolo a conoscenti che rientravano nei paesi di origine.) Lo studioso molisano Gino Massullo nel saggio Economia delle rimesse (in Storia dell’emigrazione italiana a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina, Donzelli, 2001) ricorda come gli osservatori dell’epoca parlassero di “una fantastica pioggia d’oro” e per dare un’idea della sua reale portata lo storico Stefano Pelaggi ne L’altra Italia. Emigrazione storica e mobilità giovanile a confronto (Nuova Cultura, 2011) scrive: “Basti pensare che nei primi 15 anni del Novecento gli importi delle rimesse sono stati superiori al gettito derivato dalle imposizioni fiscali dello Stato, ossia gli emigranti hanno generato un flusso economico superiore alle tasse percepite nella intera Italia.” E forse vale la pena di sottolineare come proprio in quegli anni le maggiori industrie del Paese cominciavano a raggiungere la dimensione internazionale, che presentano ancora ai giorni nostri.
    Ripercorrendo le vicende italiane dal 1860 in poi, si comprende cosa intendono Capecelatro e Carlo nel più volte menzionato Contro la questione meridionale, quando dicono che nella comunità economica nata dall’unificazione si realizzava la dialettica sviluppo-sottosviluppo, tipica della società industriale capitalistica moderna. Ad ogni progresso conseguito, o meglio, imposto, nella zona privilegiata, corrispondeva un arretramento nell’altra zona, fino a quando, oramai avviato, il processo non si è alimentato da solo, arrivando in sostanza fino ai giorni nostri. Da un certo momento in poi, infatti, gli investimenti sono naturalmente affluiti nella zona più progredita, perché per una serie di motivi era lì che risultavano più redditizi. E così alla ricchezza si è costantemente aggiunta altra ricchezza.
    In termini analoghi, d’altro canto, si era già espresso Gramsci, quando nel decimo dei Quaderni dal Carcere (Einaudi, 1948-51, e poi edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975) aveva scritto: “Le masse popolari del nord non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale.”
    Lo studio di Nunzio Dell’Erba Questione meridionale e Unità Nazionale 1861-2005, apparso nel novembre 2005 sulla Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze, è un’analisi della politica economica italiana successiva al 1860, ma allo stesso tempo è un’efficace sintesi delle vicende, che hanno pregiudicato il Mezzogiorno, riportate in questo e nei capitoli precedenti. Lo storico tra l’altro scrive: “La cosiddetta Destra Storica, che esercitò il potere nel primo quindicennio postunitario, ricevette il sostegno da parte dei liberali napoletani, i quali per aver trascorso buona parte della loro vita in esilio non solo avevano maturato un approccio dottrinario verso i problemi del Mezzogiorno, ma erano diventati i garanti più fedeli del progetto dinastico dei Savoia, sostanzialmente estraneo al tessuto civile meridionale. La presenza massiccia di settentrionali nei quadri politici e burocratici favorì il disegno egemonico della monarchia sabauda, che diresse i propri interessi più verso lo sviluppo economico del Nord che verso il Sud. Le tappe fondamentali di questo processo furono la scelta del libero scambio (1861), l’introduzione del corso forzoso (1866) e il costante squilibrio a vantaggio del Nord nella ripartizione territoriale delle entrate e delle spese statali: una misura, che, unita alla vendita dei beni demaniali e dell’asse ecclesiastico, impoverì l’agricoltura, ridusse i redditi dei ceti meno abbienti, danneggiò il Mezzogiorno e facilitò il reperimento delle risorse per finanziare gli investimenti pubblici e privati nel Settentrione d’Italia. A causa di questa politica economica, continuata dalla Sinistra con l’introduzione della nuova tariffa protezionistica nel 1887, venne instaurato un meccanismo di sottosviluppo e perfezionato il rapporto di subordinazione Nord-Sud. Questo rapporto, oltre a provocare la crisi dell’agricoltura meridionale, innescò un imponente esodo migratorio, il cui uso fu nel periodo crispino strumentalmente rivolto alla conquista di colonie di popolamento come soluzione del problema contadino e come fenomeno decisivo nel consolidamento dell’industrializzazione di fine Ottocento. L’emigrazione meridionale raggiunse cifre vertiginose nell’età giolittiana, durante la quale si ebbe uno sviluppo economico grazie alle rimesse degli emigrati e al loro contributo nell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. L’afflusso di capitali non solo favorì questo equilibrio, ma facilitò l’espansione dei risparmi nel Sud e rinvigorì gli investimenti nel Nord attraverso una politica governativa diretta a sostenere le industrie parassitarie delle regioni settentrionali.”
    In conclusione, se l’Italia nel Novecento è diventata uno dei paesi più industrializzati al mondo (fu il sesto attorno al 1920 ad acquisire le caratteristiche per poter essere definito in questo modo), lo deve al contributo determinante, o sarebbe meglio dire al sacrificio, del sud. Le sue ricchezze hanno consentito la nascita della grande industria nazionale, concentrata nel nord, i suoi consumi hanno dato la possibilità alle imprese settentrionali di crescere e, infine, sono state le rimesse dei suoi emigranti, che hanno permesso a queste imprese di consolidarsi, per poi affrontare i mercati internazionali senza restarne schiacciate. La parte più progredita del Paese finalmente unito deve molto al Meridione e ai Meridionali.

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