dal capitolo V

Il Meridione dopo l’Unità

L’Unità non fu un’unificazione, ma una vera e propria annessione di altri stati al Regno di Sardegna, che con le vicende di quegli anni allargò i propri confini, incorporando i territori occupati, e piemontesizzò, come si disse all’epoca, il resto della penisola, senza neanche un segno formale di discontinuità, tant’è vero che Vittorio Emanuele II mantenne il suo ordine dinastico, quando invece sarebbe stato primo come re della nuova nazione, e la legislatura, con la quale il 18 febbraio 1861 si inaugurò il Parlamento italiano, venne considerata come la continuazione di quelle subalpine e fu direttamente l’ottava.
In un contesto del genere fu naturale che gli uomini del governo torinese vedessero il sud come un’opportunità per risolvere i problemi del Paese che amministravano. Il loro stato d’animo si può cogliere da quanto dichiarato in Parlamento il 27 giugno 1861 da Marco Minghetti (bolognese di nascita, poi diventato cittadino dello stato sabaudo), all’epoca ministro dell’interno, il quale nel corso di un suo discorso affermò: “Veggiamo ora le modifiche arrecate dall’annessione delle nuove province. Quando il Regno di Sardegna si é trasformato in Regno italico, mi sembra che la sua posizione finanziaria sia molto migliorata.” Per l’importante politico, quindi, l’Italia unita era un Piemonte che si era esteso e sua era la situazione, migliorata grazie al contributo dei territori acquisiti.

    I politici piemontesi, quindi, videro l’Unità anche come un’opportunità per risolvere il grave problema della disoccupazione nei propri territori e nell’amministrazione meridionale, a partire già dalla prima luogotenenza di Farini, venne inserito un grande numero di sudditi del regno sardo, per far posto ai quali venivano contestualmente rimossi i dipendenti in servizio. Il governo di Torino, procurando un’attività retribuita a tutti i propri cittadini, sottrasse anche alimento sia alla cocca, la famigerata e violentissima organizzazione criminale che oramai teneva quasi in ostaggio la capitale sabauda, sia al brigantaggio, che imperversava nelle campagne del regno del nord. (Diversamente nel Mezzogiorno, aumentando il numero delle persone senza reddito, si concorreva a incrementare la base, alla quale attingevano le associazioni malavitose. La loro affermazione nella nuova Italia, però, fu determinata in prevalenza da altri fattori, come in parte abbiamo visto nel capitolo II e come vedremo più approfonditamente nel capitolo XI.) Le testimonianze sulla situazione caotica che seguì all’immissione improvvisa nelle strutture pubbliche del sud di personale settentrionale al posto di quello duosiciliano (ne abbiamo già accennato nel capitolo III) sono numerosissime e tra le tante ricordiamo l’intervento (riportato dallo scrittore e storico Carlo Alianello ne La conquista del Sud, Rusconi, 1972), tenuto il 2 aprile 1861 in Parlamento dai deputati Giuseppe Massari, Paolo Paternostro e Giuseppe Ricciardi, i quali denunciarono “il malcontento delle popolazioni mal governate, abbandonate in balia della Provvidenza, vittime di prevaricazioni nei dicasteri e di una pletorica, e incapace burocrazia assunta dai pessimi governi della Dittatura e poi delle Luogotenenze, con grave danno finanziario, politico e morale.” A proposito in particolare di quanto stava accadendo nella sua città di provenienza, il 15 gennaio 1862 il deputato Filippo Cordova in un intervento alla Camera dichiarò: “In Siracusa i sanitari negli ospedali sono il quadruplo del numero degli infermi, mentre in Sicilia gli impiegati sono enormemente moltiplicati e, sotto questo aspetto, era assai migliore il governo borbonico, il quale per la Luogotenenza spendeva novecentomila lire in meno del governo piemontese.”
Gli impiegati rimossi, come è ovvio, perdevano i loro compensi e di conseguenza interi nuclei familiari rimanevano senza mezzi di sostentamento, ma in quegli anni molte altre ancora furono le cause di disagio sociale, che produssero tutte contemporaneamente i loro effetti, rendendo la situazione drammatica. Due provvedimenti, che lasciarono senza reddito un grande numero di Meridionali, furono lo scioglimento del Corpo dei Volontari, ovvero dell’esercito garibaldino, e lo scioglimento dell’esercito delle Due Sicilie.

    Subito dopo l’Unità, quindi, nel sud un enorme numero di dipendenti pubblici e di militari rimasero senza reddito, abbandonati a se stessi, ma non andarono meglio le cose nel settore privato. Con l’annessione si era aperto improvvisamente un nuovo mercato per gli industriali piemontesi, che lo videro come una grande opportunità di guadagno e lo sfruttarono con l’appoggio del governo. In realtà in quel momento nel regno sardo gli imprenditori e gli uomini che detenevano il potere erano in più modi collegati e anzi si può dire che si trattava di un unico gruppo di persone con interessi comuni. Addirittura capitava che i ruoli tra i politici e gli affaristi si scambiassero (vedremo casi eclatanti nel capitolo X) e in una situazione del genere era naturale che i primi e i secondi si sostenessero reciprocamente. Dopo l’Unità, quindi, chi doveva decidere fece in modo che qualunque cosa servisse a Napoli, e in generale nel sud, fosse inviata dal Piemonte e questa situazione venne descritta dal deputato Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, nell’interpellanza che inoltrò il 20 novembre 1861 alla presidenza della Camera, ma che non venne autorizzato a leggere pubblicamente nell’assemblea. Proto Carafa, che era stato oppositore dei Borbone ed esule politico e pertanto non può essere considerato uomo di parte, tra l’altro dice: “Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato, il commercio, serrati i privati opificii per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi per lo annullamento delle tariffe … E frattanto tutto si fa venire dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i Dicasteri, e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato, che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A mercanti di Piemonte dannosi le forniture della milizia, e delle amministrazioni, od almeno delle più lucrose, burocratici del Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffici, gente spesso più corrotta degli antichi burocratici napoletani, e di una ignoranza, e di una ottusità di mente, che non teneasi possibile dalla gente di mezzodì. Anche a fabbricar le ferrovie si mandano operai piemontesi, ed i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani; a facchini della dogana, a carcerieri vengono uomini di Piemonte, e donne piemontesi si prendono a nutrici nell’ospizio dei trovatelli quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole. Questa è invasione, non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista. Il governo di Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortes o il Pizarro facevano nel Perù e nel Messico.”
Da quanto riferito dal deputato napoletano, è evidente che il sud divenne presto un nuovo, grande, mercato per gli imprenditori piemontesi, ma è evidente anche che il regno sardo utilizzò lo stato conquistato per risolvere i propri problemi, primo fra tutti, come abbiamo detto in precedenza, quello della disoccupazione. L’interpellanza (che vale la pena di leggere integralmente) è molto ampia ed elenca anche tutti gli altri mali causati al Meridione dalla nuova situazione politica. Si tratta di un documento particolarmente significativo, perché proveniente da un autore contemporaneo a ciò che stava accadendo e per questo in grado di rendere con immediatezza il clima di quegli anni, descrivendo i fatti con realismo e partecipazione, come nessuna ricostruzione storica a distanza di tempo potrebbe mai fare.

    La devastazione del sud successiva all’Unità è stata documentata anche da molti autori non vicini al precedente regime. Oltre al già ricordato Proto Carafa, tra questi c’è Roberto Savarese (insigne giurista, esule politico e poi deputato nel Parlamento italiano, fratello di Giacomo Savarese, autore del libro Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1818 al 1860, citato nel capitolo I), che nella lettera scritta il 13 luglio 1861 a Giovan Pietro Vieusseux, fondatore a Firenze di un prestigioso gabinetto letterario-scientifico (ancora esistente e la cui sede attuale è in palazzo Strozzi), dice: “Da Garibaldi in poi si è pensato a distruggere e non già ad edificare. Si è sciolto l’esercito borbonico. Ma, rimandando i soldati a casa, doveano essere lasciati a se stessi senza previdenza e provvidenza alcuna? (addirittura non venne riconosciuta la pensione ai militari che l’avevano maturata) E non era da antivedere che, bisognosi e mancanti di lavoro, si sarebbero rivolti al mestiere di briganti … Né questo è tutto. La gendarmeria è disciolta e il suo ufficio, se non di diritto, di fatto ricade alla guardia nazionale. E ai giudici regi, in virtù della nuova legge amministrativa, vien tolta la polizia del circondario, e trasferita nel sindaco di ciascun comune. Se un branco di collegiali in vacanza veniva a governarci non potea fare maggiori pazzie. La polizia nelle mani dei sindaci e della guardia nazionale dei nostri comuni, quasi tutti divisi in parti, non è altro che la guerra civile, e questo è seguito … Nelle campagne scorrono i briganti. Questo male non è solo nelle province remote, ma si distende fino alle porte di Napoli. In Resina da dove vi scrivo, ch’è a quattro miglia dalla capitale e può considerarsi come uno dei sobborghi di essa, non si vive sicuri … Sdegnano di restaurare e migliorare il vecchio, e volendo rifare a nuovo ogni cosa, riescono sempre a distruggere e mai ad edificare. Così è seguito non solo nelle cose, ma anche nelle persone. Abbiamo mandato via gli impiegati vecchi, ma ancora ci mancano i nuovi. Abbiamo destituito a capriccio per odio di parte, e spesso (cosa vergognosa!) per far posto agli amici … Le nostre istituzioni se ne vanno in fumo. Un mezzo milione di uomini non deve essere condannato a morire d’inedia e a marcire nell’ozio. A questo non è alcuno che pensi. Poco lontano dal luogo ove io dimoro, tra Portici e San Giovanni, è una fonderia bellissima del governo. Vi si fanno macchine, cannoni, proiettili e mille altre cose. Il credereste? La vogliono vendere (si tratta della fabbrica di Pietrarsa, che non fu venduta, ma poco dopo, come vedremo nel capitolo VII, venne data in affitto a un privato). Se il governo ha simili stabilimenti in Piemonte, perché non averne anche a Napoli? Intanto il paese si commuove, che si fa la guerra alle industrie napoletane, e tutto ha da venire di Piemonte (come denunciato anche dal Carafa nella sua interpellanza) e molti concludono con queste brutte parole: ci trattano come paese conquistato … Ho udito da uomini gravissimi che in ottobre, salvo pochi poliziotti e i soldati sbandati, non c’era partito borbonico. Oggi non si potrebbe dire lo stesso. Sono borbonici la parte maggiore e più ricca dell’aristocrazia, il clero, la schiera innumerevole degli impiegati, privati, spesso non si sa perché, dell’ufficio (noi, però, sappiamo che bisognava fare posto ai disoccupati piemontesi) e non pochi altri ordini di persone offese o non sapute guadagnare dal nuovo governo … Abbiatemi per imparziale. Io vi dico meno, e non più del vero.”
Molti anni dopo lo storico e politico lucano Giustino Fortunato, in una lettera inviata il 2 settembre 1899 a Pasquale Villari, descrisse in modo sintetico, ma estremamente efficace, quello che era accaduto nell’ex regno in quegli anni, scrivendo: “L’unità d’Italia è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti (Il grande intellettuale era un convinto antiborbonico, certamente non nostalgico del precedente regime, e pertanto le sue dichiarazioni su questo punto si possono ritenere assolutamente imparziali).”

 

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